[la Pagina del Capitano]

domingo, noviembre 03, 2002


Dopo tanto tempo un disco in vinile (che arriva, ed era ancora più tempo, via posta): Giardini di Mirò/Deep End 10” (Love Boat, 2002), con bella copertina marrone stampata argento che ricorda un po’ l’LP split Spitboy/Crudos (iniziamo decisamente bene).
Mi fa piacere ascoltare un po’ di musica contemporanea, ogni tanto, dato che cominciavo a preoccuparmi, vedendomi rivolto ad ascolti “antichi”; con questo riesco un po’ a controbilanciare. In più il 10” mi dà la possibilità di ascoltare un gruppo che gode di grande considerazione ed uno, diciamo così, emergente: due modi opposti di intendere la materia po(p)st rock.
I Giardini di Mirò li conosco sommariamente, qualche fugace ascolto del CD, un concerto, un passaggio di 10/15 minuti a MTV. Data la natura delle loro composizioni ho sempre fatto un po’ fatica a seguirli sulla lunga distanza, alternando momenti di interesse (specie nelle intrusioni dei fiati che rimandano alle colonne sonore di Dimitri Tiomkin) ad altri di noia. Paradossalmente però, la brevità del 10” mi impedisce di raggiungere un livello minimo di sintonia con la loro musica che, poco adatta ad un contesto così ristretto, dà l’idea di una certa disomogeneità. Così “A new start for shoegazing kids” sembra essere un po’ a disagio in questa sede, quasi una sonorizzazione a titoli di testa di un film che poi non arriva, mentre “The soft touch of Berlin guitarfalling” sta in piedi sulle sue gambe, con un giro indie rock messo in loop e un gentile crescendo finale, che rivela l’attitudine orchestrale del gruppo e sembra quasi trasmettere calore; musica che chiede solo di essere ascoltata con attenzione, lasciandosi cullare.
Dei Deep End ho il primo mini CD, che trovo entusiasmante: pop chitarristico sfilacciato, gioioso, con un pezzo da KO come “Match lighter”. “”C-floor” e “When you’re the lowest common denominator left…”, i due pezzi di questo EP, se ne distaccano abbastanza e, pur non tradendone lo spirito, spostano il tutto su un terreno di maggior consapevolezza. Infatti, se su “Tsunami” la mancanza del basso poteva in certi casi sembrare un handicap, qui è usata (per quanto si possa “usare” una mancanza) con più coscienza, facendo di questa assenza un elemento caratterizzante: ascoltando si è costretti a seguire le melodie essenziali tratteggiate dalle due chitarre che si intrecciano e sovrappongono come strati di colore trasparente sulla tela; la sensazione che si ha, estremamente intrigante, è quella di assistere alla canzone nel suo farsi. Ciò, tuttavia, non porta alla nascita di composizioni abbozzate in stile Starfuckers, ma alla costituzione di una struttura forte, di un’intelaiatura su cui sarà possibile inserire, magari dal vivo, variazioni, nuovi suoni, voci. È un po’ come se il gruppo conducesse l’ascoltatore in un viaggio fino ad un posto sicuro che è, però, solo a metà del cammino, lasciando spazio poi alla sua fantasia su come completare il tutto, in una sorta di remix o versioni alternative “mentali”. In questo senso le due canzoni sono davvero un “comune minimo denominatore”, completo e stabile in sé ma moltiplicabile e combinabile all’infinito per creare qualcosa di diverso. Non è musica ostica, ma è comunque musica che chiede molto all’ascoltatore, e in questo senso i Deep End controbilanciano perfettamente i Giardini di Mirò.
Ed è significativo che la Love Boat, giunta alla decima produzione, faccia uscire due gruppi facce di una stessa medaglia, due esempi delle possibili strade da intraprendere, due modi ugualmente coerenti di affrontare lo stesso tema.


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